Le più belle fiabe popolari italiane

Tramite: O2O 06/07/2016
Difficoltà:media
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Introduzione

Siamo cresciuti tutti a suon di fiabe: creature magiche, castelli incantati, avventure emozionanti... Chi non ne conosce almeno una? Tuttavia, la cosa che non tutti sanno è che il patrimonio italiano è ricco di bellissime fiabe e leggende popolari che le generazioni si tramandano oralmente da anni e anni, e che non hanno nulla da invidiare alle più famose straniere. Spesso narrate nei dialetti d'origine, queste fiabe hanno tutto ciò che serve per catapultare i bambini in mondi straordinari e per far rivivere agli adulti la bellezza dell'infanzia. Da nord a sud, la lista presenta alcune delle più belle fiabe popolari italiane.

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I giorni della merla

Famosissima a livello nazionale, questa leggenda affonda le sue radici in Lombardia, precisamente a Milano. La storia narra di una famigliola di merli dal piumaggio bianco che, durante gli ultimi tre giorni di un rigido Gennaio, trovò rifugio in un nido presso un comignolo, spinti dal tepore che quest'ultimo emanava. A contatto con la fuliggine... La famigliola di uccelli diventò completamente nera! E da allora tutti i merli nascono con le piume nere, mentre quelli dalle piume bianche sono una fantastica eccezione. 29, 30 e 31 Gennaio, considerati i giorni più freddi dell'anno, vengono chiamati "i giorni della merla" proprio in onore di questa storia.

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Gli gnomi e il calzolaio

Questa fiaba, tramandata oralmente nel corso degli anni, è originaria della Val Badia, in Trentino Alto-Adige. Il protagonista della fiaba è il calzolaio Toni, a cui capitò una stranezza: la sera, prima di chiudere la bottega e tornare a casa, sistemò sul tavolo da lavoro l'occorrente per preparare un nuovo paio di scarpe, ma l'indomani al suo rientro trovò le scarpe già belle e pronte. Spaventato e incuriosito, la sera ripeté la stessa procedura, ma invece di tornare a casa si nascose nel negozio insieme alla moglie per capire cosa stesse accadendo: fu allora che videro entrare piccoli gnomi che iniziarono a confezionare allegramente nuove paia di scarpe. Per ringraziarli, la sera successiva i due coniugi prepararono dei piccoli vestiti; gli gnomi li indossarono e lavorarono ad un nuovo paio di scarpe, ma non tornarono mai più nella bottega di Toni.

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Bellindia

Toscana di origine, questa fiaba secentesca di Gherardo Nerucci è nota in molteplici varianti, attribuibili al più noto classico de "La bella e la bestia". La trama si svolge a Livorno, dove un ricco mercante cadde in disgrazia e fu costretto a trasferirsi in campagna con le sue tre figlie, Assunta, Carolina e Bellindia, chiamata così perché era la più buona e bella della famiglia. Sulla strada del ritorno da un viaggio di lavoro, il mercante si imbatté in un misterioso castello pieno di ricchezze e prelibatezze in cui, non vedendo anima viva, decise di passar la notte. L'indomani, uscendo in giardino, trovò uno splendido rosaio e ne colse una pianta da portare a Bellindia; improvvisamente si trovò davanti un terribile Mago che lo rimproverò del gesto condannandolo a morte e che, dopo aver udito la storia del mercante, decise di risparmiarlo in cambio dell'ultimogenita, la quale accettò coraggiosamente di ubbidire al Mago trasferendosi nel suo castello. Bellindia trascorse lì diversi mesi, si affezionò al Mago ma ogni sera rifiutava la sua proposta di matrimonio, finché un giorno, a causa di una sua lunga assenza dal castello in onore delle nozze della sorella, trovò il Mago a terra quasi morto; Bellindia si disperò dichiarando il suo amore e in quel momento il Mago, che era vittima di un incantesimo, si trasformò in un bellissimo principe. I due vissero e regnarono insieme felici e contenti.

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Pesce lucente

La fiaba del Pesce lucente fa parte della raccolta "Usi e costumi abruzzesi", scritta dallo storico Antonio De Nino originario di Pratola Peligna (AQ). Protagonista della storia è un vecchio falegname, costretto a una vita di povertà finché non si imbatté in un misterioso uomo dalla lunga barba: questi prima gli regalò 100 scudi che il falegname nascose nel letame, ma che la moglie inconsapevole vendette; poi altri 100 scudi nascosti nella cenere, ma la moglie vendette anche quella; infine 24 ranocchie da vendere per comprare il pesce più grande possibile, al cui interno il falegname scoprì un bell'anello lucente. Quella notte il falegname si accostò alla finestra per ammirare il pesce il quale, risplendendo di una luce abbagliante, salvò da una mareggiata alcuni marinai fungendo da faro; i marinai, per ringraziare il falegname, gli promisero metà della loro pesca tutti i giorni, purché appendesse ogni notte il pesce fuori dalla finestra: fu così che il falegname non fu mai più povero.

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La cerva fatata

Allo scrittore campano Giambattista Basile dobbiamo la fiaba de "La cerva fatata", raccolta nell'opera "Lo cunto de li cunti". Il Re e la Regina di Lungapergola, non riuscendo ad avere figli, si appellarono ad un santone dalla barba bianca, il quale diede loro il consiglio: la Regina avrebbe dovuto annusare e assaggiare un cuore di drago marino cucinato da una vergine, così avrebbe partorito nel giro di pochi giorni. Ciò venne fatto, ma a partorire furono sia la Regina che la sua cameriera, e i figli erano profondamente somiglianti: uno venne chiamato Fonzo, l'altro Candeloro, e insieme crebbero come due fratelli. La Regina col tempo provò invidia per Candeloro, poiché pareva che suo figlio Fonzo volesse bene più a lui che a lei, e tentò di ucciderlo; non vi riuscì, ma Candeloro capì il pericolo e chiese il permesso di poter lasciare il regno, facendo dono a Fonzo di una fontana e una pianta di mortella magiche: loro gli avrebbero indicato come stesse procedendo la sua vita. Un giorno, grazie all'acqua torbida e alla piantina secca, Fonzo capì che il suo amico era in pericolo: Candeloro infatti, mentre era a caccia, era caduto nelle grinfie di un orco che lo aveva abbindolato con le sembianze di una cerva fatata. Fonzo si mise in viaggio, raggiunse l'amico ancora vivo e riuscì ad uccidere l'orco, riportando felicità, pace e il detto "amaro chi a sue spese si castiga".

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Le mie tre belle corone

"Le mie tre belle corone" è un'antica fiaba siciliana riportata da Giuseppe Pitrè, la cui protagonista è una fanciulla rimasta da poco orfana di madre. La lavandaia, prima di morire, aveva affidato le cure della figlia al prete del paese; ella però non voleva saperne, voleva solo stare con la madre, perciò decise di scappare dalla casa del parroco. Cammina e cammina, la ragazza si ritrovò davanti a un palazzo triste e solitario; entrandovi, notò che tutte le stanze erano sottosopra, perciò iniziò a rassettare, cucinare e fare ogni faccenda domestica possibile per ridare vita all'edificio. Verso sera una signora rientrò esclamando disperata "le mie tre belle corone! Le mie tre belle corone!" ma, accortasi delle pulizie, ringraziò la giovane e le diede le chiavi del palazzo affinché ne diventasse padrona; ella poi raccontò di aver perso i suoi tre giovani figli, "le sue tre belle corone", e che per questo usciva ogni giorno a cercarli. L'indomani, mentre si affaccendava, la fanciulla scoprì una porticina minuscola dietro cui erano nascosti i tre giovani, che un incantesimo aveva reso immobili; ella allora raccolse un'erba magica e, strofinandola sui corpi, resuscitò e nutrì i tre giovani. Al rientro della signora, che si scoprì poi essere l'imperatrice, la fanciulla le disse di organizzare in 8 giorni i festeggiamenti perché lei le avrebbe ritrovato i figli; così fecero e, l'ottavo giorno, la fanciulla si presentò con i tre ragazzi rinvigoriti. Per ringraziarla, l'imperatrice la diede in sposa al suo primogenito, il suo erede, e vissero tutti felici e contenti.

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